Le “Lezioni americane” di Italo Calvino sono un manuale per nuovi modelli di pensiero individuale e collettivo
Torno volentieri a percorrere i sentieri di Italo Calvino, ricordandone la scomparsa avvenuta trentacinque anni fa. Mi è venuto in aiuto quando nel luglio scorso ho cercato di descrivere con le sue metafore più note i protagonisti di questa deprimente stagione politica italiana. Non me ne vorrà se oggi lo tiro in ballo a proposito dell’urgenza di comprendere il più possibile quanto sta accadendo nel mondo e in quegli Stati Uniti dove si sarebbe recato per il ciclo di lezioni, le Charles Eliot Norton Poetry Lectures, intitolato al celebre dantista e svolto all’Università di Harvard a partire dal 1926 da intellettuali di fama mondiale tra cui Eliot, Borges e Stravinsky. Per la prima volta veniva invitato uno scrittore italiano.
Forse non tutti sanno che il titolo “Lezioni americane” non fu dato dalla scrittore ma dalla moglie, Esther Judith Singer, la sua Chiquita argentina, e come tale fu pubblicato da Garzanti nel 1988. Il manoscritto dell’originale rimasto incompiuto reca infatti una ben più impegnativa epigrafe: “Six memos for the next millennium”. E di America non parla affatto, se non attraverso l’analisi stilistica dei suoi scrittori più grandi.
Nella prefazione Esther scrive che l’espressione ricorreva nelle frequenti conversazioni tra il marito e Pietro Citati, oggi novantenne, il quale era solito chiedergli a che punto fosse la stesura delle “lezioni americane”. Mentre scrivo tengo sul tavolo lo splendido Meridiano Mondadori intitolato “La civiltà letteraria europea, da Omero a Nabokov” in cui al capitolo “La morte degli amici” Citati scrive: «Ai primi di settembre del 1985 le lezioni era quasi finite ma, per lui, appartenevano già ad un tempo passato. In quegli ultimi giorni lo vidi due volte e fu sempre tenero, affettuoso, divertente quasi felice. Calvino pensava che ogni suo libro dovesse esser un nuovo progetto che imponesse all’universo una forma impensata. Poi non ci fu più niente. Ci fu solo la caduta al suolo e la corsa dell’ambulanza fino a Siena. Due anni più tardi l’ho sognato.
Mi diceva «Sai è stato tutto uno sbaglio. I medici non hanno capito. Non sono morto» e aveva l’aria di rivelarmi un segreto. Ma il sogno diceva che il tragico non è la forma essenziale del mondo e che non c’è mai un’ultima tragedia. Dietro c’è ancora un velo e poi un altro velo e poi un altro velo ancora: e questo ingannevole gioco di forme, dove quante luci ed ombre s’intrecciano, è l’unica cosa che possiamo conoscere».
Il respiro delle lezioni è, come si conviene, universale. I temi trattati sono la Leggerezza (Lightness), il più citato di tutti e spesso a sproposito, la Rapidità (Quickness), l’Esattezza (Exactitude), la Visibilità (Visibility), e la Molteplicità (Multiplicity). La struttura è costruita sulla presentazione del tema intrecciata con le citazioni degli autori che più e meglio lo hanno interpretato.
Un’esperienza culturale adrenalinica che da sola compendia la letteratura occidentale; sarebbe dovuta culminare nella sesta lezione sul tema della Concretezza (Consistency) che Calvino aveva deciso di scrivere solo quando fosse giunto sul suolo americano. Sappiamo che avrebbe preso le mosse dallo scrivano Bartleby creato dalla fantasia di Hermann Melville, quale protagonista di “Bartleby The Scrivaner. A story of Wall Street” con il cui motto esistenziale ho concluso il mio articolo.
Il filosofo italiano Giorgio Agamben e lo psicoanalista Gilles Deleuze gli hanno dedicato un saggio dal titolo “Bartleby, la formula della creazione” pubblicato da Quodlibet nel 2011. Possiamo solo immaginare cose ne avrebbe estratto Calvino. Come in un oscuro presagio, aveva forse percepito di essere sul punto di non scrivere mai più? Sappiamo solo che così avvenne. A noi è rimasto il più straordinario testamento sulla scrittura all’insegna del quale Harold Bloom scrisse nel 1994 il “Canone Occidentale”.
Se, dunque, possiamo considerare Italo Calvino il più grande narratore italiano del ’900 e al tempo stesso il massimo critico della propria ed altrui scrittura e se pubblico e privato sono diventati anch’essi motivo di narrazione quotidiana, possiamo rintracciare nelle lezioni americane una valida matrice per generare nuovi modelli del pensare e dell’agire individuale e collettivo? È lecito e doveroso estenderne i confini oltre il sofisticato dibattito tra intellettuali e maitres à penser per immetterne le energie vitali nei comportamenti individuali e nella società?
Riterrei di sì, soprattutto quando larga parte della narrazione contemporanea in ogni parte del mondo è insidiata da una virtualità che, nel deserto dell’anima, produce continui miraggi simili a quello della fata morgana , dal tentativo manifesto di manipolare la realtà piegandola come un origami mal riuscito agli interessi di parte, dalla pratica di ingigantire personalità di minimo o nullo spessore, dalla quotidiana aggressione ai principi di realtà e di non contraddizione (A non è non A) impartitici da Aristotele, il primo filosofo laico della storia del pensiero.
Una “Repubblica” calviniana che vagheggi quella di Platone o “La Città del Sole” di Tommaso Campanella? Forse meglio ispirarsi a quelle a-topie rispetto ad altre, pronte a divenire realtà sotto i nostri occhi come la “Fattoria degli Animali”di George Orwell, “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury o “Matrix” dei fratelli Andy e Larry Wachovski, o ancora al mito della costruzione di una “realtà aumentata” che tanto sembra attrarre chi non ha mai saputo cosa fossero gli “occhiali a raggi X” che promettevano, invano, agli adolescenti maschi del mio tempo di poter sbirciare attraverso gli abiti delle ragazze.
Quando di aumentati ci appaiono in prevalenza i lati peggiori della natura umana, come dimostrato pochi giorni fa dai massimi livelli della più grande democrazia del mondo ai minimi comportamenti di uno squallido cyber bullismo, il gioco può valere la candela e non essere soltanto un’esercitazione letteraria di un qualche fascino.
A proposito, Italo Calvino era nato a Cuba, aveva spostato una donna argentina e considerava New York una città straordinaria, come descritto nel “Diario di un ottimista” dove si legge «Negli Stati Uniti sono stato preso da un desiderio di conoscenza e di possesso totale di una realtà multiforme e complessa e diversa da me, come non mi era mai capitato. È successo qualcosa di simile ad un innamoramento».
Trascorse negli USA il periodo da novembre 1959 a maggio 1960, visitando le maggiori città e cogliendo, a differenza di molti commentatori di oggi, le molte sfaccettature di quella società. Io ci ho provato, si parva licet, nell’articolo pubblicato il 12 settembre. Calvino lo fece in modo laico e privo di pregiudizi che pure gli sarebbero stati perdonati da militante di sinistra ed ex partigiano della Brigata Garibaldi, negli USA della Guerra Fredda. Il saggio, frutto di numerose corrispondenza pubblicate in modo frammentario sulla rivista “Nuovi Argomenti” ed oggetto di molti ripensamenti, era finito tra le bozze e gli incompiuti. Fu pubblicato postumo nel 1995 nel secondo tomo degli scritti critici, per i Meridiani Mondadori.
Entriamo allora con una chiave di lettera più politica che letteraria nelle “lezioni”. Di ciascuna riporterò soltanto l’incipit rinviando il lettore alla lettura del testo integrale in italiano che ripropongo. La lezione sulla Leggerezza potrebbe contenere un proponimento molto chiaro da indicare a chi vi fosse interessato: Mettere le ali al pensiero. Nota per un non impossibile domani: inviarne copia al Presidente del Consiglio, alla sua riluttante e proteiforme maggioranza e ad una certa parte di sacerdoti del pensiero unico e, per ciò stesso, debole.
«Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi,è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio».
Nella lezione sulla Rapidità, il concetto chiave invita a non sacrificare l’approfondimento all’urgenza spasmodica di comunicare ad ogni costo. Copia per conoscenza a Luigi Di Maio, Matteo Salvini e a Donald Trump, se di leggerla avrà il tempo e la voglia, cosa quest’ultima di cui dubito fortemente.
«Nella vita pratica il tempo è una ricchezza di cui siamo avari; in letteratura, il tempo è una ricchezza di cui disporre con agio e distacco: non si tratta d’arrivare prima a un traguardo stabilito; al contrario l’economia di tempo è una buona cosa perché più tempo risparmiamo, più tempo potremo perdere. La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura; tutte qualità che s’accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte».
Sull’Esattezza Calvino non fa sconti e la chiama “valore necessario” a fronte di un uso sempre più vago e approssimativo del linguaggio. Copia per il Movimento Cinque Stelle e per qualche redazione “di regime”.
«Dal momento in cui ho scritto quella pagina (Le città invisibili) mi è stato chiaro che la mia ricerca dell’esattezza si biforcava in due direzioni. Da una parte la riduzione degli avvenimenti contingenti a schemi astratti con cui si possano compiere operazioni e dimostrare teoremi; e dall’altra parte lo sforzo delle parole per render conto con la maggior precisione possibile dell’aspetto sensibile delle cose. In realtà sempre la mia scrittura si è trovata di fronte due strade divergenti che corrispondono a due diversi tipi di conoscenza: una che si muove nello spazio mentale d’una razionalità scorporata, dove si possono tracciare linee che congiungono punti, proiezioni, forme astratte, vettori di forze; l’altra che si muove in uno spazio gremito d’oggetti e cerca di creare un equivalente verbale di quello spazio riempiendo la pagina di parole, con uno sforzo di adeguamento minuzioso dello scritto al non scritto, alla totalità del dicibile e del non dicibile».
La Visibilità viene intesa come “capacità immaginifica”. Il contrario si chiama assenza di visione. Recapitare con urgenza al suddetto Luigi Di Maio, alle ministre Lucia Azzolina e Nunzia Catalfo, all’avvocato Giuseppe Conte ma anche a Nicola Zingaretti ed a due terzi della Direzione Nazionale del Partito Democratico. Ulteriore copia a Joe Biden, prima che sia troppo tardi.
«Possiamo distinguere due tipi di processi immaginativi: quello che parte dalla parola e arriva all’immagine visiva e quello che parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione verbale. Il primo processo è quello che avviene normalmente nella lettura: leggiamo per esempio una scena di romanzo o il reportage d’un avvenimento sul giornale, e a seconda della maggiore o minore efficacia del testo siamo portati a vedere la scena come se si svolgesse davanti ai nostri occhi, o almeno frammenti e dettagli della scena che affiorano dall’indistinto». La Molteplicità è, come scrisse Edith Stein, “la capacità di abbracciare il mondo”. Dispaccio urgente per Giorgia Meloni, Vìctor Orban, Recep Tayyp Erdogan, Donald Trump e Vladimir Putin.
Inutile inviare a Kim Iong-un, «ha le braccia troppo corte» come dice di se stesso il protagonista del film “Baaria” di Giuseppe Tornatore. «La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là d’ogni possibilità di realizzazione. Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la letteratura continuerà ad avere una funzione. Da quando la scienza diffida dalle spiegazioni generali e dalle soluzioni che non siano settoriali e specialistiche, la grande sfida per la letteratura è il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo».
La Lezione sulla Concretezza, come già detto, non fu mai scritta e non oserò certo farlo io. Va tuttavia ricordato che il titolo originario fosse Openness, «da intendersi non come “franchezza”, bensì nel senso di apertura, proporzione spaziale tra uomo e mondo». In seguito il titolo fu mutato in Consistency, da tradursi con coerenza. E il fatto che avrebbe trattato quasi esclusivamente di Bartleby lo scrivano ci fa immaginare tanto. Se fosse stato scritto, una copia la manderei un po’ a tutti, conservando per me l’originale.
Litteris Servabitur Orbis? Se ne è detto convinto pochi giorni fa lo scrittore ebreo Abraham Yeoshua, ricordando come dietro il relativo acronimo LSO, l’editore fiorentino Leone Samuele Olschki nascondesse il proprio nome sui testi che stampava dopo il rogo dei libri nella Bebelplatz di Berlino nel 1933 e la successiva parodistica e vile emanazione delle leggi razziali italiane nel 1938. Sembrava impossibile che si ripetesse eppure nell’estate del diciannovesimo anno di questo confuso millennio e non di qualche oscuro secolo fa, The Guadian ha riportato l’annuncio di Recep Tayyp Erdogan di aver dato alle fiamme oltre trecentomila opere scritte dai propri oppositori mentre a novembre a Centocelle una piccola libreria, La Pecora elettrica, è stata data alle fiamme. Segnali inquietanti di una possibile futura nuova barbarie.
Se siamo ancora qui, relativamente liberi di scrivere e di pensare lo dobbiamo alle poche pagine sfuggite ai roghi che in ogni tempo hanno tentato di bruciare i libri. Di solito, poco dopo, si è fatto lo stesso con le persone. Sul “sentiero dei nidi di ragno” pronto sempre ad aprirsi davanti ai nostri passi, occorre procedere con leggerezza aggrappandosi alla liana salvifica dell’immaginazione.