Portolano per rotte inedite verso lidi inesplorati – Fondato e diretto da Luigi Sanlorenzo

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Siamo tutti Robinson

La vita riserva a noi tutti piccoli o grandi naufragi che, talvolta,  ci fanno approdare su isole sconosciute dove dover ricostruire tutto daccapo, spesso con altri ed inediti mezzi.

Esistono però diversi modi di essere naufrago,  come la letteratura e il cinema hanno proposto.

C’è il naufragio di Ulisse, archetipo delle vicende umane, che rinviene sulla spiaggia del paese dei Feaci. Accudito dalla dolce Nausicaa,  narrerà alla corte di Alcinoo la propria storia, prima di raggiungere Itaca. E sarà Odissea.

C’è quello catartico provocato dal duca  Prospero proditoriamente esiliato,  per ristabilire la legittimità e la giustizia ne La Tempesta di Shakespeare. Alla fine tutti  gli usurpatori saranno perdonati ma Stefano e Trinculo saranno messi in ridicolo dalle proprie azioni e perfino il truce Calibano diventerà inoffensivo. Su tutti loro il soffio salvifico di Ariel, finalmente libero da ogni schiavitù.

C’è il naufragio illuminista di Robinson Crusoe, manifesto della volontà umana di vincere sulle asperità della natura, vista al tempo di Daniel Defoe come un antagonista da domare e quello del suo contemporaneo Jonathan Swift che ammonisce,  con la sublime ironia del naufrago Lemuel Gulliver, circa la vanagloria dei potenti e dei sicofanti che ne abitano le corti; gli dobbiamo la locuzione di uso corrente, “una modesta proposta” che viene adoperata spesso con malcelata immodestia.

C’è quello zuccheroso ed edenico del film Laguna Blu del 1980, con l’indimenticabile Brooke Shields che continua ad agitare le notti di molti spettatori e  in cui i protagonisti, cresciuti e riprodottisi felicemente sull’isola,  non attendono velieri di passaggio in quella rotta poco battuta ma scelgono di restare nel proprio paradiso terrestre. Solo per un caso saranno recuperati, svenuti a bordo di una logora scialuppa alla deriva,  da una nave che vagava da anni alla loro ricerca.

C’ancora quello di Cast Away, il film diretto da Robert Zemeckis nel 2000, in cui un nevrotico Chuck Nolan, interpretato da Tom Hanks, riscopre il senso di quel tempo che riteneva di dominare.

Non aveva letto Le Confessioni di Agostino d’Ippona né Il Mulino di Amleto del filosofo della scienza Giorgio de Santillana.

 Nolan non trova Venerdì ma s’inventa l’amico immaginario Wilson di cui dipinge le fattezze su un pallone di cuoio trovato tra i pacchi  del corriere Fedex, anch’essi arenati sull’isola. Tornerà a casa ma la sua vita non sarà più la stessa.

C’è infine quello universale della nave baleniera quacchera Pequod in cui l’arrogante capitano Achab, reso folle dal desiderio di vendetta,  interpreta le inquietudini esistenziali di Hermann Melville combattuto tra l’inevitabilità del male, rappresentato dalla balena bianca e l’aspirazione alla bontà del successivo romanzo Billy Bud. In Moby Dick sopravvivrà, aggrappato alla bara inutilizzata ma  ben calafatata del suo amico Queequeg,  soltanto il narratore della storia il cui incipit è tra i più famosi della letteratura di ogni tempo: “Chiamatemi Ismaele…”

Naufragare è dunque un tratto della condizione umana in cui ogni carattere rivela la propria essenza di cui prende drammaticamente coscienza, talvolta per rinascere a nuova vita, talvolta per rimanerne prigioniero su un’isola deserta o immobilizzato in un’ inestricabile linea del tempo, invalicabile confine tra il giorno prima e quello dopo che nessun sestante riesce a definire.

Naufragano i singoli individui ma anche le società umane quando perdono una qualche bussola che aiuti a discernere il bene nel male, la speranza nella disperazione, la salvezza nel pericolo. Accade quando non sanno distinguere le onde dai frangenti, quando non riescono a scorgere gli insidiosi scogli sommersi che frantumano una chiglia ritenuta inattaccabile, quando navigando a vista sono colte dalla nebbia o dal temporale che confondono gli occhi e le menti, anche le migliori e quando, nonostante le grida di allarme della vedetta appollaiata sulla coffa dell’albero maestro, mantengono per ignavia o per inerzia la rotta fatale.

Il celeberrimo ritratto di Théodore Géricault, La zattera della Medusa è ispirato ad un evento realmente accaduto nel 1816 ad una fregata francese. Nel dipinto,  tra gli altri naufraghi che dormono esausti, una figura si alza in piedi e solo grazie a ciò riuscirà ad avvistare i battelli che salveranno poi i superstiti.

E’ la rottura tra la rassicurante pittura neoclassica e il romanticismo che irrompe nell’arte, come un vento nuovo che gonfierà le vele di larga parte dell’ 800, il secolo dell’Idealismo e dei Risorgimenti, frutti finalmente maturi della Rivoluzione del 1789.

A presenziare al varo di quelle idee sarà stato proprio il filosofo della precisione, quell’ Immanuel Kant che dopo aver fatto ordine rigoroso  tra metafisica e scienza, spalancherà la finestra dell’ estetica del sublime,  come suprema speranza per ogni individuo di uscire dalla notte di cui tutte le vacche sono nere. Sarà l’ultimo illuminista ma genererà l’esigenza di una nuova morale e noi non gliene saremo mai grati abbastanza.

Quale rotta percorre oggi il precario vascello su cui si trovano le società poste davanti alla furia della natura tradita, al balenare di nuovi fuochi di Sant’Elmo che annunciano incubi, al riaffacciarsi di nuove pesti che come marosi improvvisi ne percuotono le fiancate ?

Non occorre essere grandi sapienti per comprendere come la crisi attuale non sia una delle tante che l’Umanità ha vissuto e, pur con enormi sacrifici, superato per ritrovarsi in un mondo nuovo.

Inedita è la combinazione tra fattori ambientali, migrazioni epocali, paure ancestrali ed angosce esistenziali che, come tutto il resto peraltro, sono globalizzate e prive di quei confini entro cui, come qualcuno sostiene stoltamente, provvedere a chiudersi ed a nascondersi sottocoperta,  attendendo che passi la nottata e che la bufera si plachi. Non hanno capito che questa, stavolta, è la Tempesta perfetta in cui nonostante il coraggio e la determinazione, nella vicenda narrata non sopravviverà nessuno.

Quella che viviamo non è una guerra di trincea e chi lo sostiene finirà per contemplare inerme  la nebbia venefica che vi avanza mortifera come nei campi di battaglia di Ypres nel 1917, nei villaggi dell’Iran bombardato dalle armi batteriologiche di Saddam Hussein nella guerra tra il 1980 e il 1988 e ora nella terra di Ucraina, ennesima vittima dello scontro tra egemonie che si disputano l’anima del mondo.

La partita che si gioca ormai da decenni sembra essere giunta alla fase culminante in cui compaiono nuove e fresche armate che irrompono sul campo.

E non è più il tempo dei trecento spartani  di Leonida che alle Termopili ritardarono l’invasione persiana, consentendo alle città greche di rifugiarsi sulle navi a Salamina, delle poche centinaia di cavalleggeri prussiani di Blucher che giunsero in soccorso inaspettato ad un già sconfitto Wellington a Waterloo, della flottiglia di pescherecci e di yacth privati che salvò gli inglesi ridotti con le spalle al mare sulla spiaggia di Dunkerque.

Ora avanzano intere e sterminate nazioni con miliardi di individui che, prima di essere masse militari oggi desuete rispetto a ben altri mezzi, sono portatrici di nuove richieste di diritti, di dignità, di salvezza. Reclamano la libertà e non si arresteranno dinanzi a nulla,  come accadeva con gli etiopi che, caduti a centinaia, diventavano scale di cadaveri su cui nuove ondate di guerrieri salivano per distruggere le postazioni delle mitragliatrici dell’odiato conquistatore italiano.

Come faglie tettoniche, tali masse sono in movimento, si ribellano nei paesi che ne opprimono il diritto al futuro come ad Hong Kong e nella Cina interna da cui poco trapela, fuggono, quando possono,  dalle dittature o dalla miseria dell’Africa sub sahariana e costiera, dal Medio Oriente, dalla Turchia di Recep Tayyp Erdogan o dal nuovo impero russo di Vladimir Putin, dalle catastrofi ambientali che percorrono il mondo.  Dei terremoti sociali che ne originano abbiamo conosciuto finora solo le prime scosse di avvertimento.

Sono i nuovi naufraghi della modernità, orfani di una globalizzazione senza orizzonte,  in cerca di approdo non in isole sperdute ma in continenti che appaiono loro come in grado di dare risposte alla loro grida di aiuto.

Non sanno purtroppo che, come nell’Isola di Pasqua, abbiamo sacrificato ai  demoni di uno sviluppo insostenibile gli ultimi alberi e presto torneremo a sbranarci tra di noi come già accade in paesi di grande e dimenticata civiltà come l’Italia, la Francia, l’Ungheria, la Polonia, il Regno Unito e gli stessi Stati Uniti d’America dove, in forme ed intensità diverse, lo scontro sociale, economico e culturale è già in atto, mentre la paura del naufragio si fa largo tra i ponti allagati e la politica è la prima a lanciarsi sulle residue scialuppe di salvataggio, piuttosto che essere l’ultima ad abbandonare la nave.

Il naufragio contemporaneo non ha nulla di epico.

Oggi si è fatto deriva, condizione di vita, ricerca perenne ed inquieta di mancati approdi e tutti siamo Robinson, alla ricerca di una mitica Dryland. Ma per trovarla dovremo diventare mutanti, dovremo cioè sviluppare inedite branchie che ci permettano di acquisire sentimenti nuovi, di percepire nuovi orizzonti, di muoverci, mobilis in mobile come recitava il motto del Nautilus immaginato da Jules Verne, negli ambienti in continua trasformazione.

Se resteremo aggrappati a navi che affondano,  senza il coraggio di andare “per l’alto mare aperto” regaleremo il mondo ai tanti smokers che vorrebbero ammaliarci anche in questi giorni con promesse che sanno già di non mantenere,   per strapparci dalle mani e dalla mente la mappa della speranza.

A costoro,  che forse ben altre reazioni meriterebbero,  abbiamo il dovere, finchè siamo in tempo,  di rispondere come il mite scrivano Bartleby: “preferirei di No”.