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Virtute e canoscenza. Perché celebreremo Dante il 25 marzo di ogni anno

Dante Alighieri nacque a Firenze tra maggio e giugno del 1265 e morì esule a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321. La decisione di celebrarne la vita e le opere con una giornata nazionale ogni 25 marzo è stata assunta nel 2020 dal Consiglio dei ministri su proposta del ministro della Cultura Dario Franceschini a ricordo della data, ricostruita dai dantisti, in cui il Poeta avrebbe iniziato il viaggio immaginario descritto nella Commedia.

Solo successivamente l’opera fu definita “divina” da Giovanni Boccaccio che non conobbe mai direttamente Dante ma scrisse su di lui un Trattatello in laude che ne è anche una biografia e curò un’edizione manoscritta del poema, correggendone il testo e aggiungendo al titolo il famoso aggettivo, poi rimasto nelle edizioni a stampa del Cinquecento.

Fu Boccaccio ad anticipare una pubblica lettura dell’Inferno nella chiesa fiorentina di Santo Stefano in Badia poi interrotta al Canto XVII; illustre predecessore di famosi lettori maschi di Dante, fino alla prima coraggiosa performance dell’attrice bolognese Piera degli Esposti che nel 2004 dichiarò: «Albertazzi, Gassman, Sermonti, Benigni: i lettori di Dante sono sempre uomini, così quando ho mosso i primi passi verso la Commedia l’ho fatto con una circospezione non data solo dalla grandezza del poema e quando vi ho scorto una mia via nel mezzo del cammin dantesco ho chiesto subito il parere ad accademici romani e fiorentini. Ho avuto il loro imprimatur e allora eccomi qui, pronta a salire dagli inferi fino a Dio con passo mio, tutto femminile».

Il 25 marzo non è dunque la data della nascita, come usa in genere per i personaggi illustri, né di quella della morte, come prescrive l’agiografia cattolica per i santi, a sottolinearne il passaggio alla vita eterna. Una scelta letteraria piuttosto che anagrafica volta a celebrare il pensiero dantesco che, più di ogni altro, ha segnato la cultura occidentale e che il critico statunitense di fama mondiale Harold Bloom, docente a Yale e alla New York University scomparso nel 2019, ha posto, insieme a William Shakespeare, come duplice centro nel suo libro “Il Canone Occidentale”.

Una relativizzazione motivata e ben diversa dalla volgarità manifestata dal Frankfurter Rundschau che ha pubblicato nel Dantedì un lungo editoriale a firma di Arno Widmann dedicato al Sommo Poeta dove si legge: «L’intera gigantesca opera è lì solo per permettere al poeta di anticipare il Giudizio Universale, per fare l’opera di Dio e distinguere tra buoni e cattivi».

Widmann non è nuovo a sparate del genere. Nel 1987 il quotidiano berlinese d’ispirazione maoista Die Tageszeitung (più noto come Taz) di cui era stato co-fondatore nel 1979 e caporedattore, pubblicò un’intervista tra lo scrittore Stefan Heym e il biologo di Berlino Est Jakob Segal , che contribuì in modo non marginale alla diffusione della teoria del complotto secondo cui il virus HI-V, origine della diffusione dell’AIDS, sarebbe stato creato artificialmente in un laboratorio militare statunitense. Un’ipotesi che trovò un certo seguito per qualche tempo negli ultimi mesi della cortina di ferro che precedettero il crollo del Muro di Berlino.

Meglio avrebbe fatto Widmann a rileggere quanto scritto al riguardo da un suo illustre connazionale il filologo Erich Auerbach (1892-1957) che in “Studi su Dante” ha ricostruito il complesso rapporto tra struttura e poesia nella Divina Commedia. L’autore giunge al risultato allargando l’indagine a tutta la civiltà cristiana e mostra come l’intelligenza di Paolo, Tertulliano, Agostino o Bernardo di Chiaravalle sia propedeutica e necessaria per una lettura globale del capolavoro dantesco. Così ha posto una pietra miliare nella bibliografia su Dante e ha spianato un campo interpretativo ancora fertilissimo.

“Dante parlò ai lettori del suo tempo, come a noi tutti, con l’autorità e l’urgenza d’un profeta. Il fatto terreno è profezia o ’figura’ di una parte della realtà immediatamente e completamente divina che si attuerà in futuro. Ma questa non è soltanto futura, essa è eternamente presente nell’occhio di Dio e nell’aldilà, dove dunque esiste in ogni tempo, o anche fuori del tempo, la realtà vera e svelata. L’opera di Dante è il tentativo di una sintesi insieme poetica e sistematica, vista a questa luce, di tutta la realtà universale. Per Dante il senso letterale o la realtà storica di un personaggio non contraddice il suo significato più profondo, ma ne è la figura; la realtà storica non è abolita dal significato più profondo, ma ne è confermata e adempiuta.”

La frettolosa e niente affatto elegante affermazione di Widman ha suscitato la reazione di Dario Franceschini, novello Virgilio, il quale ha replicato con le medesime parole dell’illustre connazionale: «Non ti curar di lor, ma guarda e passa» citando la vulgata del verso contenuto nel III canto dell’Inferno dove l’invito originale è a “non ragionar di lor” fermo il resto.

Sottigliezze queste, mentre più ampia può essere la riflessione sull’iniziative che, supportata dall’imponenza del settimo centenario dell’evento ricordato, intendeva rappresentare nelle previsioni del governo di allora anche una potente occasione di rilancio del turismo internazionale. Purtroppo non è stato così anche se le iniziative online o in presenza ridotta stanno avendo un riscontro notevole e una ricaduta positiva anche sul mondo scolastico che tanto bisogno ha di ritrovare se stesso intorno alla figura del padre della lingua italiana sovente bistrattata anche nelle aule di ogni ordine e grado.

Qui può essere di un qualche interesse ragionare del rapporto che il Paese nel suo complesso ha sempre avuto nei confronti di Dante, fustigatore degli italici costumi, della patria inclinazione al compromesso e dell’inarrestabile vocazione frazionista tra territori e potestà, drammaticamente esplosi nel periodo della pandemia che sarà ricordato per secoli in modo più amplificato rispetto a eventi parimenti tragici che hanno colpito in passato il mondo intero.

Un rapporto iniziato per tutti sui banchi di scuola dove, a partire dalla scuola media inferiore, le tre Cantiche – molto meno le altre opere – sono state somministrate in modo non sempre adeguato a farne cogliere e amare la complessità universale e i diversi versanti che esse contengono. Quanti infatti non hanno avuto l’opportunità di approfondirne la conoscenza in studi successivi ne hanno conservato un ricordo ambivalente circoscritto alle citazioni più famose in testa alle quali il riferimento al vietatissimo “bordello” e all’arcinota “trombetta”, parole accuratamente evitate in famiglia o nel discorso pubblico, contesti sino a poche decine di anni fa improntati a un puritanesimo ipocrita di cui molti serberanno il ricordo, e all’origine del fascino eminentemente cattolico del proibito.

L’Inferno dantesco ha avuto certamente maggiore pubblico rispetto agli altri regni in quanto capolavoro di quella letteratura visuale, successivamente arricchita dalle illustrazioni curate nei secoli da Sandro Botticelli, Luca Signorelli, Albrecht Durer, Gustave Dorè sino a Pablo Picasso e a Salvador Dalì. Una bella mostra coralmente sostenuta e promossa è stata inaugurata a Roma, a Palazzo Firenze, da Alessandro Masi, Segretario Generale della Società Dante Alighieri lo scorso anno.

Le passioni umane raffigurate nell’Inferno dantesco rappresentano uno specchio che i secoli non hanno appannato e che in forme e con linguaggi diversi riaffermano le costanti del comportamento umano che sono poi all’origine del costante ripetersi anche delle vicende collettive. Un vero e proprio panopticon di Benthamiana memoria che evoca, anche senza le immagini già ricordate che in seguito lo hanno illustrato, peccati e supplizi in quello straordinario e allora inedito intreccio della “legge del contrappasso” che nemmeno il Mito aveva sufficientemente esplicitato in modo così diretto.

Minor fortuna hanno avuto il Purgatorio e soprattutto il Paradiso, letture complesse che necessitano di un’approfondita cultura teologica e, per ovvie ragioni, comunque prive di quelle sollecitazioni sensuali che hanno fatto la fortuna di tante opere di valore infinitamente minore nella storia della letteratura di ieri e di oggi.

L’ambivalenza dei sentimenti popolari verso Dante e la Commedia si è sempre estesa anche al costante rimprovero che il Poeta ha rivolto all’incapacità dell’Italia di darsi un programma politico che in qualche modo prefigurasse quello stato unitario che già iniziava a configurasi nella penisola iberica galvanizzata dalla progressiva sconfitta dell’egemonia araba, in Francia con l’incoronazione di Carlo Magno nel Natale dell’anno 800, in Danimarca già dai tempi di Canuto II e nella Norvegia di re Harald I alla fine del IX secolo.

Nell’opera politica per eccellenza, “De Monarchia” Dante, guelfo convinto, non esita però a far risalire al potere temporale del Papato la responsabilità nel ritardo del processo di unificazione della penisola, aprendo tra i primi del proprio tempo il grande tema della separazione tra Chiesa e Stato: “Per questo l’uomo ebbe bisogno di una duplice guida, in corrispondenza del duplice fine, cioè del Sommo Pontefice, per condurre il genere umano alla vita eterna mediante la dottrina rivelata, e dell’Imperatore, per dirigere il genere umano alla felicità terrena attraverso gli insegnamenti della filosofia. E siccome a questo porto [della felicità terrena] nessuno o pochi, e anche questi con eccessiva difficoltà, potrebbero approdare, se il genere umano — sedati i flutti della cupidigia esposta a ogni seduzione — non riposasse libero nella tranquillità della pace, il governatore del mondo, detto Principe Romano, deve tendere con tutte le sue forze a questo scopo, cioè a far sì che in questa aiuola umana si possa vivere nella libertà e nella pace. E siccome la disposizione di questo mondo è conseguenza della disposizione propria dei moti celesti, affinché le utili iniziative [imperiali] di libertà e di pace possano trovare applicazione adatta ai luoghi e ai tempi, è necessario che quel governatore del mondo sia stabilito da chi ha una visione complessiva e immediata della disposizione globale dei cieli.”

Da qui la teoria dei due soli ove Dante afferma che i due poteri sono indipendenti e sovrani nella propria sfera di competenza e sostiene la necessità di coesistenza tra papa e imperatore. Il massimo per quei tempi che tuttavia nel 1329 portò al rogo il De Monarchia con l’accusa di eresia; nel 1559 l’opera fu inserita dal Sant’Uffizio nel primo Indice dei libri proibiti e la condanna fu confermata nelle successive edizioni sino alla fine del XIX secolo.

Solo nel 1921 papa Benedetto XV nell’enciclica In Praeclara Summorum dedicata a Poeta scrisse “In verità Noi riteniamo che gl’insegnamenti lasciatici da Dante in tutte le sue opere, ma specialmente nel suo triplice carme, possano servire quale validissima guida per gli uomini del nostro tempo.” Una bella soddisfazione, per quanto postuma di quasi seicento anni.

Del Dante innamorato non dirò, risparmiando ai lettori il ricordo di teneri struggimenti adolescenziali che a improbabili Beatrici si ispirarono, prima di pervenire a più decise e consistenti iniziative destinate a maggior successo. Tuttavia anche di quei versi è composto il sentimento nazionale verso colui che presto avrebbe trovato in Gemma Donati la madre dei propri figli.

Paradigma di ogni narrazione occidentale e non solo, Dante è stato protagonista oltre che di dovuti saggi poderosi anche di trame più leggere tra cui “Il Circolo Dante” dello scrittore statunitense Matthew Pearl, pubblicato nel 2003. In un’America appena uscita dagli orrori della guerra civile, un gruppo di letterati, tra i quali il poeta Henry Wadsworth Longfellow, fonda un circolo per far conoscere la prima traduzione de La Divina Commedia.

Il comitato direttivo della vicina Università di Harvard, protestante e conservatore, tenta in tutti i modi di ostacolare la diffusione delle “superstizioni immorali e papiste” di Dante, che, insieme alle masse di immigrati in arrivo da oltre-oceano, minacciano di corrompere l’America. All’improvviso si susseguono una serie di delitti particolarmente efferati. I membri del Circolo Dante capiscono che l’assassino si è ispirato al sommo poeta come maestro di crudeltà, infliggendo alle sue vittime i tormenti descritti nel Inferno. Sarà proprio Longfellow insieme al proprio gruppo di amici, a dover trovare e fermare il colpevole, a rischio delle loro stesse vite.

Senza dimenticare il Dan Brown di “Inferno” nel 2013, dove la maschera mortuaria di Dante conservata in Palazzo Vecchio è presente come profezia di futuri cataclismi prodotti da virus sconosciuti e letali. Nella trasposizione cinematografica del 2016, diretta dal Ron Howard, il protagonista è sempre Tom Hanks nei panni del professor Robert Langdon, con al fianco partner di indubbio fascino quali l’inglese Felicity Jones, la Sally di “The Midnight Sky” Oscar 2020 e il divo di Bollywood, l’indiano Irrfan Khan, indimenticabile interprete di “Vita di Pi” diretto da Ang Lee nel 2012, prematuramente scomparso del 2020.

Meno noto forse è un romanzo di Valerio Massimo Manfredi “L’isola dei morti” pubblicato da Mondadori nel 2018, la cui trama avvincente va raccontata senza togliere al lettore il piacere del finale. Il racconto vede protagonista l’archeologo Lucio Masera, impegnato nelle manovre per riportare a galla un’antica galea rinvenuta sul fondale della laguna veneziana. Trae spunto dal ritrovamento di due imbarcazioni medievali affondate nei pressi dell’isola sommersa nella laguna veneta, di san Marco di Boccalama ed avvenuto tra il 1996 e il 1997.

“Quale ne l’arzanà de’ Viniziani / bolle l’inverno la tenace pece / a rimpalmare i legni lor non sani… Mi sono venuti in mente quei versi dell’Inferno appena ho visto quel relitto, non so perché, anzi, lo so benissimo. Siamo a Venezia o in ogni caso non molto distante, sul fondo della laguna, a poche spanne dalla superficie c’è una nave risalente al quattordicesimo secolo, lunga una trentina di metri, che gli archeologi stanno liberando dal fango che la ricopre e il fasciame comincia a riapparire. Uno spettacolo, ti assicuro”.

Con queste parole, Lucio Masera descrive all’amico Rocco Barrese quanto da lui visto durante la sua immersione nelle acque di San Marco in Boccalama. Barrese non è uno qualsiasi: è un filologo che insegna letteratura medievale presso la Ca’ Foscari e che ha di recente pubblicato uno studio sulle fasi che avrebbero caratterizzato la composizione della Divina Commedia. La sua opera non è certo passata inosservata, suscitando un certo clamore e una nutrita polemica tra gli estimatori e gli specialisti del settore. L’ipotesi, paventata dallo studioso, vede Dante tornare più volte sul suo scritto e sostiene che alcuni complementi siano stati aggiunti addirittura poco prima della morte del grande scrittore. Tra le sue qualità di studioso, Barrese può vantare una grande preparazione come linguista poliglotta.

L’uomo, infatti, riesce a distinguere anche le più lievi sfumature semantiche e poetiche. Del resto il filologo è un sedentario, un topo da biblioteca. Credibile come stile di vita se si dà uno sguardo al suo studio nel Ghetto vecchio: una stanza stracolma di libri tra i quali la biografia di Dante del Petrocchi. Barrese ascolta il racconto dell’amico in maniera piuttosto interessata: trova che la narrazione sia alquanto avventurosa, o almeno lo è per lui che non percorre più di un chilometro per volta! E poi Lucio ha fatto un accostamento fantastico: un verso dantesco a emblema di una scoperta archeologica. Buon viaggio tra i canali e i misteri di Venezia.

Dante allora non smetterà di riservarci sorprese anche nei prossimi settecento anni, man mano che il linguaggio simbolico, allegorico, anagogico e metaforico della Commedia troverà sempre più attenti filologici decifratori dei tanti enigmi nascosti tra i 14.233 versi e fantasiosi narratori capaci di trarne trame avvincenti che nascono dall’ansia di quell’oltre, condanna e dono per ogni essere umano spesso costretto a saper “come sa di sale lo pane altrui e come è duro calle lo scendere e ’l salir per l’altrui scale” e che, in qualunque condizione interiore si trovi, aspirerà sempre “a riveder le stelle”.

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